L’industria bellica non conosce crisi, neanche durante l’emergenza. La produzione italiana di armi per guerre che non esistono aumenta ogni anno, mentre cresce l’importazione delle forniture mediche per 7,7 miliardi di euro. Intanto medici e infermieri sono sempre meno e i tagli alla sanità sempre di più

da L’Espresso, di Rita Rapisardi

Gli F35? Valgono centocinquantamila terapie intensive. La portaerei Trieste? Cinquantamila respiratori polmonari. Una manciata di blindati e un elicottero? Trecentotrentamila posti letto oppure dieci miliardi di mascherine. Di fronte alla guerra contro il coronavirus ci siamo trovati impreparati, senza armi. Eppure non ci mancano quelle per combattere una guerra che non esiste: quella sul campo.

Le spese militari in Italia crescono da anni, così come i tagli alla sanità. E adesso che mancano ventilatori, posti letto, mascherine e reagenti, è ancora più difficile da accettare. Già perché le forniture mediche dell’Italia dipendono per lo più dall’estero: con quello che produciamo non copriamo neanche il 50 per cento del fabbisogno, per questo importiamo apparecchi elettromedicali per 1,2 miliardi e attrezzature medico-dentistiche per 6,5 miliardi l’anno. Mentre importiamo armamenti per meno di cinquecento milioni.

Una scelta di priorità che oggi costa cara. Un esempio sono i 43mila posti di lavoro in meno nella sanità in dieci anni (dati Fondazione GIMBE) o gli scarsi investimenti per le preziose terapie intensive (una, costa 100mila euro). Basta poi confrontare la media dei Paesi Ocse: da noi ci sono 3,2 posti letto ogni mille abitanti, contro il 4,7 di quella europea. Capofila è la Germania (la terza a livello mondiale) con otto, motivo che ha contribuito a controllare meglio la diffusione dell’epidemia. E poi i tagli dei posti letto (15mila euro l’uno): dal 2000 al 2017 si parla di meno il 30 per cento.

PIÙ SOLDI PER LE ARMI, SEMPRE MENO PER LA SANITÀ
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a medici richiamati dalla pensione, alla corsa alle lauree per buttare in corsia quanti più infermieri possibile e all’assunzione immediata di circa 20mila operatori sanitari per sopperire ai periodi di magra.

«Si è voluto anteporre la spesa militare a quella sociale e civile, questo ha portato a un costante indebolimento del Sistema Sanitario Nazionale a fronte di una ininterrotta crescita di fondi per l’industria degli armamenti», commenta Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo. Mentre da un lato la spesa militare è passata dall’1,25 per cento del Pil fino a raggiungere un picco del 1,45 per cento (con l’amministrazione di Trump che spinge perché i membri Nato raggiungano il 2 per cento, che per l’Italia vorrebbe dire 10 miliardi in più all’anno), dall’altro quella sanitaria è scesa di un punto percentuale, con una previsione per il 2020 che si aggira sul 6,5 per cento del Pil.

«E questi sono solo i numeri delle previsioni di partenza – sottolinea Vignarca – perché nei bilanci consuntivi si verifica una spesa effettiva decisamente superiore. Va sottolineato poi che nella previsione per il 2020 quasi 5,9 miliardi di euro sono destinati all’acquisto di nuovi sistemi d’arma». Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio Mil€x nel 2020 spenderemo circa 26,3 miliardi in spese militari, un miliardo e mezzo in più rispetto l’anno precedente.

L’industria bellica non conosce crisi, cresce con il lascia passare di tutti i governi che si sono susseguiti negli ultimi 15 anni, anche con l’approvazione da parte del Movimento Cinque Stelle e del Partito Democratico. «Sembra che una volta arrivati al governo cambi tutto, non si riesce a superare quello scoglio, nonostante in passato si siano fatte battaglie opposte», aggiunge Vignarca.

CI SERVONO TUTTE QUESTE ARMI?
«Sa qual è il bilancio della portaerei Cavour, costata 1,3 miliardi ed entrata in servizio nel 2009? Che io sappia ha fatto due operazioni: la prima ad Haiti nel 2010, nell’ambito del cosiddetto “battesimo operativo”, per portare soccorsi dopo il terremoto. La seconda, ancor più incomprensibile per una portaerei, per il tour militare-commerciale-umanitario denominato “Sistema Paese in Movimento” iniziato a novembre del 2013 in cui, col pretesto della lotta alla pirateria, ha toccato diversi porti della penisola araba e dell’Africa per pubblicizzare i prodotti dell’industria bellica italiana. In una parola, finora è servita soprattutto per attività di rappresentanza e per celebrazioni», commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio sulle armi leggere (OPAL) di Brescia. Ecco, lo scorso maggio ne è stata varata una nuova. La Trieste, costo previsto 1,2 miliardi di euro.

Non ci sono solo i celebri F-35 dal valore di 15 miliardi di euro. È fresca la conferma dell’acquisto da parte della Marina Militare di due sommergibili dal costo di 1,3 miliardi di euro, che saranno costruiti da Fincantieri: mentre il coronavirus blocca i cantieri, come il comparto delle navi da crociera, la scelta militare sembra la più sensata per non star fermi. «Come si fa a chiedere soldi all’Europa quando in bilancio ho appena inserito due sommergibili?», commenta Beretta. Senza dimenticare i sette miliardi di euro sbloccati dal Ministero della Difesa e dal MISE per la prevista “Legge Terrestre” che dovrebbe garantire la costruzione di diversi armamenti.

E poi ci sono le 36 missioni militari all’estero che ogni anno ci costano 1,3 miliardi. Servono a dare visibilità, ma non solo: «Molti dei mezzi militari usati in questi contesti, come i Lince, sono rivenduti con il valore aggiunto di essere stati “testati in scenari di guerra”», dice Beretta. Di queste missioni poi, come quella in Afghanistan, denunciano le associazioni, mancano bilanci a lungo termine e risultati raggiunti che vadano oltre il numero dei pasti caldi distribuiti o dei posti letto creati.

NEANCHE IL CORONAVIRUS FERMA IL SETTORE
Neanche il lockdown ha fermato il settore. Si legge infatti in una comunicazione dell’AIAD, la Federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza, membro di Confindustria, che c’è “l’opportunità per le società e le aziende federate, di proseguire la propria attività, concentrando l’operatività sulle linee produttive ritenute maggiormente essenziali e strategiche, e di rallentare per quanto possibile l’attività produttiva e commerciale con riferimento a tutto ciò che non sia ritenuto essenziale”.

Le aziende sono proiettate all’estero: è forte la competizione per accaparrarsi grandi clienti come i paesi del Golfo. Esportiamo per 2,5 miliardi di euro, lo 0,6 per cento del Pil. È di poche ore fa la notizia che Fincantieri ha vinto la gara per le fregate che finiranno alla Marina Usa. «Sostanzialmente è stata concessa totale libertà alle aziende. Per un po’ hanno chiuso quelle legate alle armi leggere, come la Beretta, ma non si è fermato chi produce aerei – conclude Vignarca – questo dimostra lo stato privilegiato rispetto agli altri settori». Senza dimenticare che pochissime sono state le riconversioni della produzione per venire incontro all’emergenza.