di Matteo De Fazio & Marco Magnano
da Riforma.it

I civili continuano a morire in Yemen e i sospetti sulle responsabilità italiane nel coinvolgimento con i propri armamenti sono sempre più forti

La guerra che da circa un anno e mezzo si sta combattendo in Yemen è sepolta sotto una coltre di silenzio. Nel fine settimana il conflitto è però tornato sulle pagine dei giornali, che hanno raccontato del bombardamento che ha colpito una processione funebre a Sana’a e che ha causato 155 vittime, secondo le ultime stime. Il conflitto resta in gran parte circondato dal silenzio. «Una tendenza che in questa guerra è ancora più forte che in passato – spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia – quando ci sono dei conflitti prendiamo acriticamente le parti dei nostri alleati. In un contesto come questo, nel quale domina la paura dell’estremismo di matrice islamista, del terrorismo jihadista, siamo disposti a chiudere gli occhi su tutto». Una costante che non riguarda soltanto lo Yemen, continua Noury: «per quanto riguarda la Siria lo facciamo sui crimini commessi dal regime di Assad e benedetti da Putin e facciamo lo stesso con l’Arabia Saudita in Yemen: in nome di un presunto moderatismo e di un ruolo strategico nel contrasto al terrorismo internazionale, la monarchia di Riyadh viene protetta e armata dall’Occidente, così che sui crimini di guerra che vengono commessi dal marzo del 2015 si chiude un occhio. Questa è veramente una delle guerre più dimenticate ma anche più sporche a cui stiamo assistendo in questi ultimi decenni».

Drammatica la situazione dei civili: «l’emergenza più grande è alzarsi al mattino e riuscire ad andare a letto vivi la sera, che non è affatto scontato – dice Noury – oltre a questo c’è una disperata necessità di aiuti umanitari, perché in queste nuove guerre del ventunesimo secolo i civili sono un obiettivo, ma ancora prima di loro lo sono le infrastrutture civili: mercati, ponti e ospedali, compresi quelli sostenuti da Medici Senza Frontiere, tutto ciò che serve per portare avanti la vita civile, a collegare le persone tra loro, è stato distrutto. Milioni di persone sono in disperato bisogno di aiuti umanitari e questi aiuti neanche li ricevono perché ci sono fronti contrapposti che ne bloccano i passaggio, oppure perché i ponti non ci sono più o perché le strade sono bombardate. Non dimentichiamo che lo Yemen è un Paese di per sé povero, che in questa situazione è costretto a dipendere dagli aiuti, al punto che l’80% della popolazione si trova in questo stato di dipendenza».

Un altro elemento che viene spesso sepolto in questo conflitto è il possibile coinvolgimento italiano nella produzione di armamenti che vengono venduti all’Arabia Saudita. La settimana scorsa la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, si è recada a Riyadh per incontrare il re saudita Salman e il Ministro della Difesa, Muhammad Bin Salman, con lo scopo di migliorare le relazioni bilaterali. «Una politica criticabile – dice Enrico Piovesana, giornalista, esperto di difesa e spese militari, già inviato di guerra per Peacereporter e collaboratore del Fatto Quotidiano, ma anche ideatore dell’osservatorio Milex sulle spese militari italiane insieme a Francesco Vignarca, della Rete Disarmo – perché è il segno di un crescente collaborazione tra Italia e Arabia Saudita nonostante le numerosissime denunce di violazione di diritti umani nel conflitto in Yemen che, ricordiamo, non è stato autorizzato dalle Nazioni Unite. Sia Amnesty International sia la Rete Italiana Disarmo hanno denunciato la fornitura italiana di armi all’Arabia Saudita, in particolare di bombe prodotte in Sardegna».

Una delle questioni principali della vicenda è la violazione della legge 185/90 che impedisce la vendita di armi a paesi in guerra. «La Difesa si è sempre rifiutata di rispondere a cinque interrogazioni parlamentari su questa violazione della legge – continua Piovesana – l’apertura di un fascicolo da parte del procuratore aggiunto di Brescia Fabio Salamone, l’unico che ha accolto le istanze della Rete Disarmo, è la prima di questo tipo e sta portando all’acquisizione di informazioni presso i produttori: speriamo che il Ministero degli Esteri e della Difesa diano così una risposta».

Il caso degli armamenti all’Arabia Saudita sembra essere l’unico così eclatante, ma le ombre sono numerose: «ci sono molte forniture di armamenti a paesi del Nord Africa e nel Golfo – ricorda Piovesana –, ci sono varie triangolazioni per le forniture a gruppi combattenti: non è un segreto che molte armi occidentali, tra cui le nostre, una volta arrivate nei paesi del Golfo siano poi finite in mano a gruppi terroristici che combattono in Siria e non solo». Un altro problema è quello della repressione interna: «l’Italia ha venduto armi a Paesi che le usano con le popolazioni interne, come gli elicotteri venduti alla Turchia che vengono utilizzati nel conflitto contro i curdi, ma anche in Africa, Medio Oriente, Filippine: una politica cinica che riesce ad aggirare la legge del 1990 attraverso gli accordi bilaterali. Quando c’è un accordo tra i due Paesi la legge vale di meno, e in Parlamento si sta discutendo dell’opportunità di riformularla proprio per far sì che un accordo possa essere rivisto se l’altro paese entra in conflitto».

Anche per questo esiste l’Osservatorio Milex, che sta lavorando per riunire tutte le voci di spesa che riguardano gli armamenti italiani. «La campagna di finanziamento ci ha permesso di iniziare a lavorare per il primo grande prodotto: il rapporto annuale sulle spese militari italiane che introdurrà delle novità su come vengono conteggiate – conclude Piovesana –. Nemmeno il Sipri, l’ente internazionale che fa questo mestiere dagli anni ‘60, riesce a vederci chiaro sulle spese italiane. Mettere insieme le voci di spesa non è facile, ma dai primi risultati sappiamo che le statistiche diffuse dal ministero per la Difesa non sono solo come vengono presentate. La costante della spesa militare è inquietante se confrontata ai tagli che vengono inflitti ad altri altre voci di spesa pubbliche. C’è bisogno di una maggiore attenzione scientifica ai numeri».

Per tornare allo Yemen, le vie d’uscita potrebbero esserci, ma non sono tutte positive, ricorda Riccardo Noury: «i negoziati che si sono svolti nel corso degli ultimi mesi hanno segnato il passo. Sono negoziati sui quali l’Occidente ha puntato e punta poco, lasciandoli a una dimensione regionale tra Paesi del Golfo. Questo significa che oggi rimane aperta una sola opzione, che è quella che spero non si avveri mai, cioè l’obiettivo dichiarato dell’Arabia Saudita: distruggere completamente lo Yemen, decapitare la leadership e le forze militari che gravitano intorno al gruppo degli Houthi, ristabilire al potere il presidente Mansur Hadi, che di fatto oggi non occupa e controlla nemmeno tutta la capitale. Il problema è che per portare a compimento questo obiettivo i sauditi stanno mettendo in atto crimini efferati contro le persone e le infrastrutture civili: il numero dei morti ha superato i diecimila, che sembra un numero piccolo, ma visto in scala rispetto alla popolazione del Paese è enorme».