L’analisi della spesa militare italiana nei cinque anni della 17 Legislatura, con il contributo dell’Osservatorio Mil€x e all’interno del “Bilancio di fine Legislatura” promosso dalla Campagna Sbilanciamoci


Metteremo milioni nei vostri cannoni: la spesa militare non conosce austerità

Il contesto

La XVI legislatura si era chiusa con l’approvazione della legge 244/2012 sulla revisione dello strumento militare, le cui linee di applicazione rimangono ancora sulla carta. Il fallimento è sia sul fronte della riorganizzazione dello strumento militare che in quello dell’ipotizzata centralità parlamentare nei programmi di ammodernamento dei sistemi d’arma e nella scelta sulle missioni militari all’estero.

Sulla struttura organizzativa delle forze armate, il Libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa 2015, voluto dalla Ministra Roberta Pinotti come primo “parto” della legge 244/2012, ha cercato di delineare i criteri per un’opera ambiziosa di riorganizzazione, incidendo sulle strutture direttive e di comando dello strumento militare; sulle modalità di reclutamento, formazione, valorizzazione del personale; sulla pianificazione degli investimenti e su molti altri settori di interesse della Difesa. Il Libro bianco non è però riuscito a incidere in alcun modo e il suo testo è stato criticato da più parti.

Nella XVII legislatura è stato comunque inserito uno strumento di pianificazione come il Documento programmatico pluriennale per la Difesa (Dpp) che però, di nuovo, non garantisce al Parlamento un vero controllo delle questioni legate alle forze armate e all’acquisto di armamenti. È inoltre prefigurata, ma non ancora operativa, una legge pluriennale per gli investimenti della Difesa, che invece sarebbe utile per monitorare spese sempre più alte e poco chiare.

Per la parte di organico, sulla scorta dell’ultimo provvedimento sul riordino delle carriere (rafforzato dagli stanziamenti della Legge di Bilancio 2018), è stato largamente disatteso l’obiettivo di una spesa al 50% per il personale, al 25% per l’esercizio e al 25% per gli investimenti. Le forze armate dipendono così dalle risorse destinate alle missioni internazionali. I numeri sono chiari: i finanziamenti per le spedizioni all’estero sono cresciuti dal 2014 di oltre 300 milioni di euro (+30% circa): nel 2014 equivalevano (dopo cospicua riduzione dell’anno precedente) a 965 milioni, mentre l’ultima deliberazione del Consiglio dei Ministri del 28.12.2017 ha assegnato alla parte militare delle missioni all’estero 1.282 milioni.

Anche il numero di militari e forze di polizia impiegati nel teatro internazionale è cresciuto: dai 5.390 impiegati nel 2013 ai 7.883 potenzialmente impiegabili nel 2018. I teatri di impegno sono aumentati: i più recenti sono la Libia con una discutibile missione di terra (400 unità previste nel 2018 e 130 mezzi terresti) e la nuova e rischiosa missione in Niger (470 unità previste nel 2018 e 130 mezzi terresti). Ma nella XVII legislatura ci sono stati anche il ritorno in Iraq delle nostre truppe (ritirate nel 2007 dal Governo Prodi), con il duplice pretesto della coalizione anti-Daesh e di consentire alla multinazionale italiana Trevi i lavori di consolidamento della diga di Mosul, e la prosecuzione, pur con un contingente più ridotto, dell’occupazione dell’Afghanistan.

Va invece positivamente segnalato l’impegno di Marina Militare e Guardia Costiera nel salvataggio di migliaia di vite nel Mediterraneo. Giudizio sospeso sull’efficacia della riforma sull’approvazione e proroga delle missioni internazionali (la “legge quadro” 145/2016). La sostituzione con atti d’indirizzo parlamentari sulle singole missioni, invece della conversione dei tradizionali decreti- legge di finanziamento, consente una maggiore articolazione della discussione e il voto separato per missione, ma rischia di relegare il Parlamento a semplice notaio di decisioni prese dall’Esecutivo. Positiva è la valutazione delle due Commissioni d’inchiesta varate dalla Camera in connessione a

questioni militari: quella sull’uccisione del paracadutista Emanuele Scieri ha consentito la riapertura

dell’inchiesta da parte della Magistratura, mentre quella sugli effetti dell’utilizzo dell’uranio impoverito ha portato all’approvazione di norme a tutela della salute dei militari e delle popolazioni interessate, nonché la tracciabilità delle armi utilizzate nei poligoni e nelle esercitazioni.
Negativo è invece il giudizio sulla bocciatura delle mozioni che chiedevano al Governo di non consentire il dispiegamento e l’ammodernamento delle nuove bombe atomiche B61-12 nelle basi nucleari di Aviano (Usaf) e Ghedi (gestione congiunta con l’Aeronautica). Un’occasione persa per far valere la nostra adesione al Trattato di non proliferazione nucleare e per avere un ruolo propositivo nei percorsi di disarmo nucleare. Altrettanto grave l’opposizione – fin dall’inizio e nelle sedi sia preparatorie che di negoziazione – del Governo in merito al dibattito internazionale che ha portato all’approvazione nel 2017 di un Trattato di messa al bando delle armi nucleari. L’Italia ha votato contro la convocazione dei negoziati svolti alle Nazioni Unite e non vi ha preso parte. Risulta infine grave la bocciatura delle mozioni (presentate sotto lo stimolo della società civile) che chiedevano al Governo lo stop alle autorizzazioni di fornitura di armi italiane all’Arabia Saudita e alla coalizione da essa capeggiata nella guerra in Yemen. Si è arrivati al paradosso che mentre gli Eurodeputati italiani (compresi quelli della maggioranza di Governo) votavano in tre diverse occasioni una risoluzione per chiedere alla Vicepresidente della Commissione Mogherini e ai Governi Ue l’embargo sulle armi verso i responsabili delle immani sofferenze inflitte alla popolazione civile yemenita, i loro omologhi italiani respingevano testi simili alla Camera.

Il bilancio

Nei cinque bilanci dello Stato 2014-2018 di diretta responsabilità di questa legislatura c’è stata una crescita di circa il 5% delle spese militari, valutate secondo la metodologia Mil€x. Si è passati da 23,6 miliardi annui ai quasi 25 miliardi appena deliberati, con una crescita avviata due anni fa dai Governi Renzi e Gentiloni che hanno deciso una risalita dell’8,6% (quasi 2 miliardi in più) rispetto al bilancio Difesa del 2015 (l’ultimo a risentire degli effetti della spending review decisa nel 2012 dal Governo Monti e applicata dal successivo Governo Letta anche al Ministero della Difesa). Un andamento simile a quello del bilancio “proprio” della Difesa, a cui però si devono aggiungere in fondi provenienti modo sempre più sistematico da altri dicasteri: dalle spese per le missioni militari all’estero, agli impatti del trattamento pensionistico militare privilegiato, fino ai fondi del Ministero dello Sviluppo economico (Mise) destinati all’acquisto di nuovi armamenti.

L’analisi dei dati relativi al procurement militare è fondamentale: nel corso della XVII legislatura tali fondi non sono mai scesi sotto i 5 miliardi annui, in particolare grazie all’utilizzo dei fondi del Mise (dai 2,8 miliardi nel 2014 ai 3,5 per il 2018). Principali programmi di acquisto: i caccia F-35, nuove navi militari approvate da una Legge navale dal valore di quasi 6 miliardi di euro, centinaia di elicotteri e carri armati. Senza dimenticare che ben 12,8 miliardi dei 46 complessivi (circa il 28%), previsti dal Fondo pluriennale investimenti voluto dal Governo Renzi sul Bilancio 2017, sono garantiti a vantaggio di acquisti armati. Il tutto con dati di dettaglio presentati solo mesi dopo l’approvazione parlamentare, che testimoniano la mancanza di controllo parlamentare al riguardo.

Anche il tentativo di un’analisi più accurata, condotto con l’Indagine conoscitiva sui sistemi d’arma nella prima parte di legislatura, si è concluso con un nulla di fatto, evidenziando peraltro forti limiti sul principale caso di procurement militare: i caccia F-35. Nonostante diversi dibattiti in Parlamento e l’analisi delle Commissioni competenti, si è verificata una forzatura costituzionale mai vista prima da parte dell’allora Presidente della Repubblica Napolitano, che è intervenuto neutralizzando le prerogative del Parlamento e abusando delle funzioni del Consiglio supremo di difesa (esclusivamente consultive a Costituzione vigente) per confermare in un certo senso l’obbligatorietà dell’acquisto del Joint Strike Fighter.

Sono risultate inefficaci anche altre iniziative parlamentari di controllo sugli acquisti di armamenti (come la proposta di legge Bolognesi) o sulle carriere nell’industria militare di ex-ufficiali delle forze armate (legge Galli), bloccate dai veti di maggioranza e dalla volontà della Difesa. Parimenti, la legge di applicazione del Libro bianco si è arenata in Commissione Difesa al Senato e quella di Riforma della rappresentanza militare alla Camera, mentre le Commissioni sono state sollecitate a esprimersi su diversi atti fondamentali (molto impattanti per il futuro) promossi in seno all’Unione Europea e propedeutici all’istituzione della cooperazione strutturata permanente in materia di difesa (Pesco), al Piano d’azione europeo in materia di difesa e all’istituzione del Fondo europeo della Difesa. Quest’ultimo prevede in prospettiva 500 milioni di euro l’anno per la ricerca militare e il supporto a progetti di produzione di armamenti, con un effetto moltiplicatore annuo (dal 2020) di 5 miliardi di euro. Eventuali (e sollecitate) risorse destinate dagli Stati membri al Fondo verranno addirittura escluse dai calcoli del deficit di bilancio ai sensi del Patto di Stabilità.

Inoltre, la proposta di legge (Scanu/Basilio) per la riabilitazione dei militari uccisi nelle decimazioni operate del Regio Esercito per mantenere la “disciplina” durante la Prima Guerra Mondiale, approvata all’unanimità dalla Camera, è stata bloccata dal Presidente della IV Commissione Difesa del Senato, sotto evidenti pressioni dei vertici militari. E in questa legislatura è stata dilatata oltre misura, rendendola di fatto permanente, l’operazione “Strade sicure”: da inizio legislatura si è assistito al raddoppio del contingente dispiegato (oggi circa 7.100 donne e uomini dell’Esercito). Questa legislatura passerà alla storia infine per la crescita vertiginosa delle autorizzazioni all’export militare italiano, i cui effetti si vedranno nei prossimi anni: 14,6 miliardi di euro (+85% rispetto al 2015, +452% rispetto al 2014). Il valore delle esportazioni effettive si attesta invece sui 2,85 miliardi, in linea con il passato. Pesa in particolare la mega-commessa (oltre 7 miliardi) di caccia Eurofighter per il Kuwait; ma tra i principali Paesi destinatari vi sono anche Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Pakistan, Angola, Emirati Arabi: oltre il 60% delle nostre armi finirà in Stati non aderenti a Ue e Nato. Si tratta di una politica insensata che contribuirà a far crescere i conflitti, in contrasto con le nostre necessità di politica estera come vorrebbe la legge 185/90.