Sono ben 23 i programmi militari sottoposti dal ministro Guerini al Parlamento nel 2021. Per una spesa record complessiva prevista di 12 miliardi. È il segnale di un nuovo ruolo della Difesa. D’ora in poi sarà sempre più dicile capire quanto certi costi siano giustificati da reali esigenze di sicurezza nazionale e quanto da obiettivi di sostegno dell’industria bellica.

Articolo per il numero di Left del 17 dicembre 2021

Cacciabombardieri, droni, missili, mezzi blindati, radar ed elicotteri: un vero e proprio catalogo dei più aggiornati sistemi d’arma, come mai si era visto nel nostro Paese. In meno di sei mesi, da agosto in poi, il Parlamento è stato letteralmente inondato di richieste per nuovi sistemi d’arma che faranno felici non solo la Di- fesa e le Forze armate ma anche – e forse soprattutto – l’industria a produzione militare.

Con le ultime trasmissioni di documento dell’inizio di dicembre (tutte comunque da approvare entro la fine dell’anno) sono infatti arrivati al numero record di 23 i programmi che il ministro Lorenzo Guerini ha inviato alle Camere nel 2021. Il controvalore complessivo confermato (e quindi ormai definitivo) ricostruito dall’Osservatorio Mil€x sulle spese militari supera di poco i 12 miliardi di euro (12,14 per la precisione) con autorizzazioni di spesa annuale per oltre 300 milioni nel 2021 e per quasi mezzo miliardo nel 2022. Se anche le tranche successive dei programmi avviati verranno successivamente approvate si potrebbe arrivare poi ad un onere complessivo previsto di circa 24,4 miliardi di euro.

In prima fila come beneficiaria di queste decisioni troviamo l’Aeronautica militare, con programmi per oltre 6 miliardi e mezzo di euro. Si parte dall’oneroso avvio della fase di ricerca e sviluppo del caccia di sesta generazione Tempest (2 miliardi sui 6 totali previsti) e dai nuovi eurodroni classe Male (quasi 2 miliardi anche in questo caso) per arrivare ai nuovi aerei per guerra elettronica Gulfstream e alle nuove aero-cisterne per il rifornimento in volo Kc-46. Senza dimenticare il nuovo sistema di difesa aerea Nato e il centro radar spaziale di Poggio Renatico. Un’altra grossa fetta della torta – circa 2,4 miliardi – è appannaggio dei programmi interforze: droni kamikaze per le forze speciali e nuove batterie missilistiche antiaeree improntate sul sistema dei missili Aster. Quest’ultimo è il sistema con lo stanziamento più cospicuo tra tutte le richieste avanzate: oltre 2,3 miliardi solo per la sua prima fase. I restanti programmi fanno capo a Marina militare ed Esercito, con stanziamenti di circa un miliardo per ciascuna Arma. Per la prima ci sono le nuove navi ausiliarie e da supporto logistico, i nuovi radar missilistici per le fregate Orizzonte e la nuova rete di radar costieri mentre l’Esercito si vede attribuire fondi per i nuovi blindati Lince 2, gli elicotteri Aw-169 e il nuovo posto di comando per le missioni. Stessi elicotteri e blindati, oltre a camionette e autocarri, anche per i Carabinieri che sono destinatari di due programmi per poco più di 300 milioni di euro totali.

Ben 2,4 mld di euro saranno “investiti” per l’acquisto di droni kamikaze e batterie missilistiche antiaeree

Da dove vengono i soldi

Se le decisioni definitive, in termini di tipologia di armamento e di quantità, sono da attribuirsi all’attuale governo Draghi va però sottolineato come la possibilità di spendere così tanti soldi in armamenti derivi da decisioni prese nel passato. Infatti è proprio sul 2020 e sul 2021 che iniziano ad essere iscritti nei bilanci in maniera consistente i fondi per investimenti pluriennali decisi ed impostati già a partire dalla fine 2016. L’Osservatorio Mil€x ha ricostruito la destinazione dei circa 144 miliardi di euro che, dal governo Renzi in poi, sono stati iscritti su speciali capitoli di bilancio atti a sostenere investimenti infrastrutturali di ampio respiro: circa un quarto dei fondi complessivi, per un totale di 36,7 miliardi, sono stati destinati alla Difesa. Una quota maggioritaria di questi fondi – quasi 27 miliardi di euro in totale – hanno come destinazione proprio i programmi di armamento, ed è per questo che nel giro di soli tre anni i soldi a disposizione per investimenti armati sono passati da circa 5 miliardi di euro a oltre 8 miliardi di euro all’anno. Nel corso dei prossimi anni questo tipo di iniezione di finanziamento crescerà ulteriormente passando dal miliardo di euro appostato sul 2021 (e che ha permesso in particolare di coprire costi di programmi elicotteristici, di aerei e di sistemi di combattimento) a cifre previste tra i 2 e i 2,5 miliardi all’anno dal 2028 in poi.

Non è un caso quindi che il ministero di via XX Settembre si sia affrettato a far produrre agli Stati maggiori schede di programma ingenti sia per le cifre in gioco che per il numero di proposte messe all’attenzione del Parlamento. Un Parlamento che, come purtroppo tradizione in questo campo, ha approvato all’unanimità tutte queste proposte senza domandarsi quanto siano davvero utili alla “difesa” del Paese e dei suoi cittadini o in realtà solo funzionali agli interessi dell’industria degli armamenti (e della volontà di prestigio indotto delle Forze armate).

Per la difesa «bisognerà spendere molto di più
di quanto fatto finora», ha dichiarato a settembre

Mario Draghi

Il ruolo di Draghi e Guerini

Pur dovendo giustamente considerare che la costruzio- ne degli strumenti di finanziamento per nuove armi è iniziata ben prima del governo Draghi, è pur vero che indipendentemente dalle allocazioni dei fondi pluriennali di investimento l’esecutivo attualmente in carica avrebbe potuto legittimamente decidere di cambiare rotta. Invece, al posto di scegliere diverse destinazioni (in particolare a sostegno del Servizio sanitario, messo a dura prova strutturale dalla pandemia, come suggerito da Sbilanciamoci e Rete italiana pace e disarmo che avevano proposto una moratoria di un anno sull’acquisto di nuove armi) Mario Draghi e Lorenzo Guerini hanno deciso di continuare nella stessa direzione, oltretutto rafforzandola dal punto di vista della motivazione politica sottostante.

«Le ultime esperienze internazionali hanno mostrato che ci dobbiamo dotare di una difesa più significati- va: è chiarissimo che bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora» ha dichiarato a settembre il presidente del Consiglio, intervenendo sul tema delle spese militari in maniera esplicita come nessuno dei suoi predecessori aveva mai fatto. Pur non essendo in grado di precisare le modalità con cui giungere a tale aumento, a domanda precisa Draghi si è detto certo “che bisognerà spendere di più in difesa”.

Il ministro al vertice delle Forze armate non si è invece limitato a semplici dichiarazioni alla stampa, ma ha deciso di condurre passi concreti e formali di tutt’altro livello. Sulla scia di quanto già iniziato a tratteggiare con le linee programmatiche della sua prima perma- nenza alla Difesa (nel governo Conte II) Guerini ha infatti esplicitato alle commissioni competenti di Camera e Senato che il suo programma ministeriale si sarebbe basato su due pilastri: proiezione esterna anche di missioni militari, in particolare con una strategia sul Mediterraneo allargato, e valorizzazione con sostegno pieno all’industria militare. Questa seconda linea portante è stata descritta con parole chiare: «Soprattutto in questa fase, confermo pertanto la necessità di impiegare le risorse della Difesa per sviluppare pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’industria di settore, attraverso una rinnovata sinergia, in grado di armonizzare al meglio le esigenze delle Forze armate con le capacità e gli obiettivi di sviluppo strategico del comparto industriale, e dando priorità ai programmi di investimento con maggiori effetti positivi sulla nostra sovranità tecnologica e sulla nostra economia».

Di fatto ciò comporta una vera e propria trasformazione del ruolo stesso del ministero della Difesa che, da garante costituzionale dell’integrità territoriale del Paese, diventa un vero e proprio attore economico a servizio di uno specifico comparto: quello dell’industria della difesa definito da Guerini «un catalizzatore e un moltiplicatore di investimenti, fondamentale per sostenere le prospettive di rilancio e crescita dell’economia nazionale, che dobbiamo pertanto valorizzare». Senza dimenticare la volontà di sostegno addirittura all’export bellico, realizzato in particolare con i cosiddetti Accordi government to government (o G-to-G) in cui è lo stesso ministero della Difesa a diventare parte in causa contrattuale come venditore.

Si tratta di una trasformazione di obiettivi (e forse di vera e propria mission) non certo secondaria e che non va sottovalutata, soprattutto perché avvenuta con uno slittamento graduale e senza consapevolezza non solo da parte dell’opinione pubblica ma in un certo senso anche della stessa politica, che si è fatta facilmente convincere da luoghi comuni mai basati su dati reali. Il passo ultimo di un percorso iniziato con il “Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa” – con un intero capitolo dedicato alle politiche industriali – voluto dall’allora ministra Pinotti (oggi presidente della commissione Difesa del Senato) e terminato con l’emanazione da parte del ministro Guerini nel settembre 2021 di una “Direttiva per la politica industriale della difesa”. Un documento ufficiale che oltre a ribadire l’ipotetico “valore aggiunto” della produzione di armamenti va a cambiare radicalmente il rapporto tra Forze armate e aziende belliche: dalla normale dinamica “cliente-fornitore” a una sinergia pensata «come Sistema difesa volta a contemperare le prioritarie esigenze di sviluppo capacitivo dello Strumento militare con gli obiettivi di innovazione tecnologica e di competitività dell’industria nazionale, attraverso l’uso integrato e bilanciato del mercato domestico, di mirate strategie di collaborazione internazionale e della proiezione sui mercati esteri».

Una rivoluzione copernicana che da ora in poi ci dovrebbe far dubitare di qualsiasi proposta o scelta proveniente da via XX Settembre, perché sarà difficile distinguere se giustificata da reali esigenze di difesa dello Stato o da obiettivi di sostegno e sussidio dell’industria degli armamenti (e di tutto quello che ci ruota attorno). Di fatto rendendo plasticamente evidente l’esistenza e la presenza di quel “complesso militare-industriale” che tanto faceva paura, in termini di minaccia per la stessa democrazia, anche al generale Eisenhower.